AMERICA CINEYE. Six States in a while

Questo viaggio è fatto di case.

Siamo partiti con un film dedicato a chi cerca casa e ci hanno offerto le case più belle di tutti gli Stati, che ad aver fatto architettura o l’agente immobiliare magari le sapevamo anche descrivere: case villette mansion cottage doppio cottage apartements flats basements che sono case parallele in case giganti, con portici e verande e bovindi che sono finestre ad arco non finestre a golfo, o serre convertibili colonne colonnate staccionate o un patio, un deck, un gazebo, balconi pochi.

Era un viaggio difficile all’inizio, le doppie guardie Delta usano il terzo grado e il doppio turno nelle coincidenze olandesi. Due guardie donne dicono ma perché stai andando da sola ad un festival di cinema italiano in Minnesota, perché perché perché, chiedono tanto e mi chiedono se sono nervosa e con chi vivi in Italia, con chi vivi, ma perché stai andando da sola perché perché. I Cani li avevamo sentiti tutti, si sa che le coppie non le fermano quasi mai, ma stavolta in ogni caso, in due non c’andavo (manco per sogno).

All’aeroporto di Minneapolis-Saint Paul invece ci spacciano facilmente, nemmeno ce ne accorgiamo, per una dolce mammina del Minnesota, e così evitiamo la scansione multipla d’ogni bagaglio.

Si arriva al buio nella dolce Minneapolis, con rinomata gentilezza del Midwest ci accolgono nel cinema incastonato tra il Mississippi e la neve. “Welcome in Minnesota” ce l’ha detto però la mattina dopo un ragazzotto armato, qui come tutti, di sale e spalaneve d’enormi dimensioni. Li troviamo anche noi nell’atrio della dolce casetta a Saint Anthony Main, dove impariamo a fare il letto con triplo piumino, ciniglia e d’oca.

La neve quando cade la notte è brillantini, di giorno è lava accecante e selvaggia, poi montagna di fango ai lati dei guardrail, o sabbie mobili nelle Minnehaha Falls.

Nel Mississipi vero infatti, blue e blues anche quand’è bianco e di giorno, i confini tra gli stati solidi-liquidi-gassosi son incerti. Ti devi tuffare e scoprire: la materia, il materiale.

Al’s for breakfast è il posto più dolce di Dynkitown e tutti lo consigliano per colazione ma nessuno c’era andato davvero. Noi c’andiamo per cena. E subito leggiamo sulle tazze e magliette: “Abbiamo molti amici e pochi posti a sedere”. È vero dagli anni ’60. “I like it here. Nothing is new, everything is old”, ci dice il cameriere 24enne. E poi aggiunge, “Nella vita bisogna divertirsi”.

E così ci perdiamo su quelle striscioline di ghiaccio sottile dove dovremmo saperci orientare, tra le bianche griglie chiamate città, al di là d’ogni previsione ci scortano sempre dolci sconosciuti, giochiamo ai giochi nelle enormi birrerie, ci baciamo sulla neve tra i camini a gas, e al Mall of America stavo quasi per comprare il cappello giusto.

Scopriamo infine che Jean Nouvel si era recato a Minneapolis per copiare da vari istituti assicurativi e banche e quant’altro l’esatta forma e tinteggiatura della Nouvelle Philarmonique. Ma prima di scappare con le forme vincenti per giustamente redimersi aveva dato a quest’immensa città il Guthrie Theater e in special modo il suo endless bridge: platea fotografica che è un tripudio di vetri in variazioni kelvin e che precipita in quello skyline di farine in fabbrica, dorate ciminiere e papere del Mississipi.

Quasi sempre odio le foto alle persone umane soprattutto alla mia – ma tra le tante stranezze che possono accadervi in 5 giorni di Minnesota c’è anche l’essere stati noi stesse ritratte – e pure col vestito buono – assieme ad un corrucciato Al Milgrom, fondatore della Minneapolis Film Society e mito in forma d’uomo di anni quasi cento.

Gli rendono visita nel suo 95 compleanno ma lui dice che “c’ha da fare, è un giorno come un altro”. “Più anziano regista emergente del mondo” è una definizione che si è cucito addosso da solo.

“Di modo da avere poca concorrenza”.

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AMTRAK EXPERIENCE

L’Union Depot, essendo la stazione di un treno imperiale e costruttore d’imperi (Empire Builder train), vuole essere ancora una stazione imperiale del 1852. Per questo ha due ciabattini d’antan, benché lo strumento lucidatore sia elettronico. (gli shoe shine li ritroveremo anche nella folla di La Guardia, ma elettrificati).

Però l’Amtrak in quanto tale potrebbe costituire i 70 dollari meglio spesi di tutta la vita tua, persino per la “breve” tratta Saint Paul-Chicago. 8 ore ti sembreranno poche e ne vorrai di più, soprattutto dopo aver scoperto sul giornalino che esiste anche la tratta Los Angeles-New Orleans che passa da Tucson.

Sapendo bene per cosa si prende un treno (che qui però i miei vicini adulti stan prendendo emozionati per la prima volta nella vita), l’Amtrak dispone di un observation site, vagone con finestrini doppi anche sul tetto, con scrivanie più grandi della mia e tavolini fronte vetro (senza considerare che le poltrone normali hanno il poggiapiedi, il tavolino semovente e un metro di lunghezza per le gambe).

Allontanarsi da Minneapolis e infiltrarsi nel Minnesota è come ascoltare una canzone di Timber Timbre senza i cori finali, perché qui è tutta una pluralità che non si dispiega (miglia e miglia di ghiaccio in cui ad un tratto potremmo trovare degli umani seduti da soli, nel nulla del nulla d’un bianco di terra screpolata).

La neve-lava si dirada piano piano e diventa persino incendio, o prateria giallina con tratti di rosso, mentre le villette arabeggianti si fanno tract houses dalle forme meno ardite. E da Screamin’ Jay Hawkins si passa a Busted di Wanda Jackson and Jack White.

Ci mancano subito la lava bianca delle città gemelle e la neve negli stivali, anche se in Wisconsin ci sentiamo già un po’ country.

Nel treno si incontrano degli amish, ma non è che gli altri pure non stiano lavorando ai ferri per comporre sciarpe rosa presto da indossare. Gli amish però si distribuiscono nel vagone con fierezza di fotomodelli. Sfilano nei corridoi con frangette precise e capelli rossissimi piegati all’infuori, con gilet neri sopra camice dai colori accesi (o celeste o verde), però a volte anche loro hanno le camicie che fuoriescono dai pantaloni. Uno siede solo dietro di me con posa malinconica. A Portage, WI, ne saliranno molti altri e spesso allegrissimi. Giocano a carte senza figure, con numeri enormi disegnati sopra.

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Ancor prima di aver contribuito al suo fondo pensioni, Will confessa “I love your hair”. Quando gli dico che so’ finti non tanto ci crede.  

Will è l’annunciatore di cibo da treno più esilarante che esista. Riesce a collegare la parola desire ad ogni tipo di bevanda in lattina.


This is CHICAGO

(Dall’incendio sorge l’acciaio, dall’audacia rosso rame sorge la città più bella del mondo, ma tu ti prego non sposare un altro ninja). 

Oggi, nel 1923, voi state percorrendo una strada di Chicago,
ma io vi faccio porgere un cenno di saluto al compagno Colodarsky che, nel 1918,
sta camminando per una strada di Pietrogrado:

egli apprezza il vostro gesto.

Antologia – Scritti di Dziga Vertov

 Prima di partire il mio collega più loquace aveva così riassunto i suoi due anni di vita a Chicago: “vertigini e villette”. Ora, se già fotografare bene le villette risulta difficile per via di tutti i suv parcheggiati davanti, cogliere la prodigiosa verticalità al negativo che si dispiega in maniera unica nelle alleys del centro è impresa ancora più ardua per un malizioso cellulare da 80 euro.

Ma fu proprio al cospetto di un vicolo, in uno dei miei ultimi fallimentari tentativi, che un passante mi sussurrò all’orecchio (a me, proprio a me): “Trump is dead”.

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Già molti stati prima di arrivare a Chicagoland tutti gli under 23 ci paiono Joey Purp, e peraltro avendo raggiunto per la prima volta gradi positivi (addirittura 3) siamo pronte a togliere vere sciarpe e finte pellicce e girare in maglietta a colpi di swag.

La sera che ci recammo al Rosa’s Lounge di Tony Mangiullo (insospettata sede del “Chicago blues with an Italian accent”), Mary Lane era appena entrata nella Blues Hall of Fame, ma ci vollero solo poche alette di pollo ben guarnite per farmi invitare con nonchalance al suo eclettico tavolino. Mary Lane ha un’età fattasi certa, ma canta sui tacchi a spillo e dal vivo farebbe ballare anche le pietre, con o senza amplificatore.

Del resto la sua banda si chiama No static.

Quand’è finita l’esibizione io sento di dover percorrere altri lidi, ma a lei proprio a lei Mary Lane non sembra ammissibile che una persona in carne ed ossa possa camminare con piedi propri per quasi un miglio nella periferia ovest di Chicago. Il carburante, non i piedi! Il carburante, non i piedi!

Dopo avermi tenuto la mano per 5 minuti di preghiera blues riesco a convincerla a farmi andar via con i piedi (in America con i piedi!!!) al modico prezzo di una chiamata all’indomani mattina sulla sua linea privata, per confermare la continuità della mia esistenza.

Di solito non lo faccio ma poi presa da americano scrupolo ho ritrovato la sua business card e l’ho chiamata davvero. Era contenta che si possano usare i piedi, mi sembra. Ma ancora un po’ preoccupata pure alla fine della storia.

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“SAY YES TO MICHIGAN! Any season, any reason”.

Un’altra cosa da cui ci avevano messo tutti in guardia è il viaggio in autobus, specialmente in Greyhound. …Che nei film si vede sempre, ma io a mia figlia in autobus non ce la manderei mai. E invece in questo Greyhound troviamo i completi buoni degli studenti in attesa di colloquio, o chi trasporta quel che d’ogni casa è il necessario. L’unica cosa che spezzava i cuori era lasciare Chicago.

Giunti dalla dolce Michela nella dolce Ann Arbor subiamo un dolce reclamo de frio, e anche qui come in tutti gli altri stati camminare è fortemente temuto e vivamente sconsigliato, pure se la città-campus è piccola e quieta. Ad Ann Arbor non ci sono i ciabattini, la traccia imperial-vintage si esprime forse nei risció degli studenti e nelle cartoline biopolitiche. Ma per tre dollari ho acquistato il più bel stereoscopio del 1866.

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Smoking DETROIT

The queen of broken hearts in a charming electric blue

Detroit è un’onomatopea. Le foto non possono descriverla.

Io non credendo a me stessa ne ho fatte mille,
che contrariamente alla malinconia di sinistra l’imbruttiscono quando è bella,
ma vi prego di considerare che a Detroit la gente vi parla e vi sorride. Non ha certo negli occhi,
la morte del Capitale.

Il nostro secondo e ultimo Marvin ci strappa addirittura un ritratto, subito mettendosi in posa nell’adorabile piazza vuota del Detroit Eastern Market. A Detroit sono tutti belli più dei fotomodelli. Forse lo sapevano anche Yves Marchand e Romain Mouffre, fotografi di moda che qui si erano recati

per diventare

fotografi di rovine.

Al Detroit Institute of Arts (DIA), per estrema coincidenza, troviamo invece una bellissima mostra di foto sulle case-baracche e le case mistificate, c’è persino Alberobello nell’81 e una sessione di film sul “fare casa” nel cinema.

Alla Packard Automotive Plant la security non ci perde di vista, nell’Heidelberg Project invece la vista è perduta, la profondità di campo esplode: ogni interno di casa, così fitto nelle villette statunitensi, s’è sbattuto fuori.  

Dopo sole 8 ore tra fumo e fabbriche ce ne andiamo con la neve che fiocca su Buddy’s (best square) pizza (ever). “Magari ci fosse un campo di bocci qui dentro” mi dicono due mangiapizza battendomi due high five.

Il cielo è blu metallico e viola in motor city, l’ultimo billboard che leggiamo in autostrada recita illuminato: “Beyond any reasonable doubt, JESUS IS ALIVE”.

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UN CANADA IN UBER (almost a long story)

E invece no, da Detroit non ce ne andiamo.

Dopo sole sei ore trascorse al gate 76 del McNamara Airport grazie alla lontana tempesta di neve di nome Quinn, costrette a sedarci in un motel su una qualche Highway in quell’estrema periferia orientale di Detroit dall’ironico nome Romolus ci ricordiamo che nientedimeno il Canada stava proprio lì dall’altra parte del fiume.

Raggiunte le chiavi-schede metalliche del suddetto motel (vista buona su tutto un parcheggio, peccato che noi le nostre macchine le abbiamo distrutte per realizzare istallazioni artistiche postfordiste a Detroit) chiamiamo l’uber di nome Kingsley e l’uber di nome Michael e ci spediamo a Wyandotte, che da google maps sembra proprio “il waterfront”.

[intanto i capelli, non più finti, ci erano diventato un tuttuno]

Arrivate a Wyandotte non c’è nessuno ma proprio nessuno nessuno nessuno. C’è il solito risto-lounge dai soliti 3000 piedi con scoperti tutti i coperti e in lontananza qualche waitress che chi attendere non ha.

È l’ora della vista sbiadita con le nocche tagliate dal gelo e invisibili corvi e corna di navi che non si vedono. Il fiume è nero e c’è un piccolo faro finto vicino ad una clessidra appesa a un filo e le solite bandiere ammericane che a me sembrano sempre bruciare e in fondo in fondo eccolo il Canada, rappresentato dall’isoletta-spazzatura di nome Fighting Island, di cui fino a ieri non sapevamo niente.

C’è il fumo alto anche in Canada, se proviene dall’isola che lotta o da La Salle-Ontario non lo sappiamo, ma i bianchi vapori ricordano Detroit, e dunque rassicurano.

Nuvolette nel cielo scuro e qualche tract house, anche dal nulla è ora di andare.

Da qui apparentemente non ci sono più corse – va da sé, camminiamo allora un po’ per Biddle Avenue ed è lì che quel “pack of nobodies” nel giro di un miglio, 3 dollari nel portafoglio e un ripetuto fischio proveniente dal nowhere dovrebbero farci temere, ma proprio giù all’angolo dove pareva una lucina leggiamo “All hands on dock”, e soprattutto “Fish Fry”.

Ci sono le palme finte e la neve vera, e allora vas y.

Gli americans da dentro mi guardano strano, però assicurano rapido asporto per baked potatos e tuna salad. Del resto anche qui in un locale di mille piedi c’è solo una famiglia da 4 che si fa tanti selfies ed è molto felice. Nel bagno troviamo l’America vera: cavallucci marini in paillettes incorniciate, portachiavi della lotteria del Michigan a volontà, segnali marini d’ogni forma e funzione.

Dobbiamo andare, un buon uber ci ha raggiunto pure essendo “fuori corsa limite” il nostro ritrovo di urbanissimi marinai notturni di Detroit.

[Una cosa che mi chiedo sempre qui è come fanno i signori uber a sapere sempre in anticipo qual sia la colonna sonora giusta per la nostra strada il nostro umore il nostro smarrimento emozionale. Nella way back che come qui le pizze gli ospedali e tutti gli ingredienti urbani si chiama Ford Ave già riconosciamo i posti dell’andata, anche se l’indirizzo era stato smarrito dai no data: Il Lounge Motel Jacuzzi, Joe Joe e poi Wendy’s e la Motor City Marina…

Prima di depositarmi l’Uber Michael scrutando sospetto la final destinazione domanda: “are you gonna be safe?”]

I am an American aquarium drinker I assassin down the avenue I’m hidin’ out in the big city blinkin’ What was I thinkin’ when I let go of you?


Minimal NEW York: La Gente

New York è un container di container.

Sarà che il nostro viaggio-sogno è finito, ci calamitiamo attorno alle dead end, dead zone, red rooms, angoli mortissimi della più profonda Brooklyn e del Coca Cola Queens.

Ritroviamo però per caso vari segni fotografati nel 2009: use less in Lorimer street L, e tutto il concreto ready mix di Bushwick su Morgan Ave… è cemento ancora da mescolare, non esattamente gentrificato. Il Queens invece bestemmia tanto in ogni Deli, per questo ci piace.

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Nei giorni successivi, a Napoli, incontravo la palma di Washington a Villa Floridiana. Di lì a poco sognare di finire col treno in California a causa d’una lieve mancanza del cosiddetto senso d’orientamento.

Ma in realtà era il Nebraska.


[viaggio di fine febbraio-inizio marzo 2018 / durata: 18 giorni ca. / video a venire…]